left, n. 21, 25 maggio 2018

Il vero volto di un’Europa spietata

Nonostante i proclami di Junker in riferimento all’equità e all’inclusione sociale, le politiche europee vanno in tutt’altra direzione. I trattati dettano legge imponendo agli Stati membri austerità, svalutazione del lavoro e riduzione delle prospettive sociali

di Andrea Ventura

Oggi ci impegniamo per realizzare 20 principi e diritti che spaziano dall’equa retribuzione all’assistenza sanitaria; dall’apprendimento permanente e una migliore conciliazione tra vita professionale e vita privata alla parità di genere e il reddito minimo: con il pilastro europeo dei diritti sociali, l’UE si batte per i diritti dei cittadini in un mondo in rapido cambiamento”. Sono parole di Junker, Presidente della Commissione Europea, pronunciate il 17 novembre scorso in occasione della proclamazione del pilastro europeo dei diritti sociali. Belle parole, indubbiamente, che addirittura alludono al reddito di cittadinanza. Se un governo “populista” in uno dei paesi fondatori dell’Europa avesse preso questi solenni impegni, avrebbe scatenato una crisi finanziaria epocale. Ma nella bocca di Junker hanno tutt’altro effetto. Sebbene sia uno dei funzionari più potenti d’Europa, Junker, da primo ministro del Lussemburgo, per diciotto anni ha consentito alle grandi multinazionali di utilizzare il suo paese come base per eludere le imposte, sottraendo ingenti risorse agli altri governi europei. E poi si sa che l’Europa non è questo: certo, i documenti ufficiali europei sono pieni di riferimenti all’equità e l’inclusione sociale, ma le politiche europee vanno in tutt’altra direzione.

Vincolanti per i paesi, infatti, non sono questi principi. Piuttosto, dal Trattato di Maastricht del 1992 per l’adesione alla moneta unica, al Patto di Stabilità e Sviluppo del 1997, fino al Patto Fiscale del 2011, le finanze pubbliche dei paesi europei (che quei principi dovrebbero attuare) sono state sottoposte a regole sempre più stringenti. Così, tra trattati e patti europei, e vincoli aggiuntivi imposti dalla scelta dei paesi di rinunciare alla sovranità monetaria, piuttosto che realizzare quei principi l’Europa li ha traditi. L’auspicata convergenza tra le economie del continente, che avrebbe dovuto essere il risultato della creazione di un mercato unico per merci, capitali e servizi, della moneta unica e dell’imposizione di criteri di finanza pubblica uguali per tutti, ha invece generato fratture sempre più profonde tra aree economiche forti e aree in profondissima crisi, generando una crisi sociale sempre più profonda.

Da un lato dunque l’Europa si richiama alla solidarietà e alla giustizia sociale, dall’altro i governi di molti paesi del continente, impoveriti dalle politiche di austerità, impongono la svalutazione del lavoro e la riduzione dei servizi e delle protezioni sociali. Il caso della Grecia rimane emblematico: in un’Europa dove i governi non hanno avuto difficoltà a mobilitare quasi ottomila miliardi di Euro per salvare dalla bancarotta il sistema finanziario, una piccola economia il cui debito totale è meno del 4% della cifra sopra indicata è stata distrutta, tradendo ogni principio di solidarietà. Un’Europa dunque apparentemente basata sul libero mercato, ma che di fatto, improvvisamente, allo scoppio della crisi, è stata capace di realizzare uno strano socialismo che salva le banche fallite e scarica i costi dei salvataggi sui più deboli.

Il dramma che viviamo non è solo legato allo squilibrio tra le affermazioni di principio sulla difesa dei diritti sociali e una gestione dell’economia che ha impoverito mezzo continente. Il fallimento dell’Europa è anche il fallimento di quelle forze della sinistra che sul progetto di integrazione hanno giocato la loro identità. La scomparsa quasi ovunque di quei partiti socialisti e socialdemocratici che hanno rappresentato la sinistra storica in Europa, infatti, non può essere analizzata al di fuori di questo contesto. Eppure, se la scommessa dell’integrazione è stata perduta, da ciò non segue che l’uscita da questo modello di gestione dell’economia passi per la disintegrazione dell’Europa stessa. Su questo ogni scorciatoia è illusoria e ogni semplificazione pericolosa. Anzitutto una nuova crisi causata dall’abbandono disordinato della moneta unica, o dal ripudio del debito da parte di un paese, rischia di peggiorare ulteriormente le condizioni materiali dei ceti meno protetti. Gli altri, certamente, troveranno qualche Junker o qualche paradiso fiscale in grado di proteggerli. In secondo luogo esiste ormai una dimensione globale dell’economia che non può essere regolata su base nazionale: si pensi alla tassazione dei movimenti finanziari (la Tobin Tax), all’adozione di schemi fiscali in grado di controllare l’elusione e l’evasione fiscale delle grandi multinazionali, alla tassazione delle imprese della rete e alle norme per il rispetto della privacy, fino agli scontri sulle regole del commercio mondiale, sono temi questi dove le possibilità di incidere di un singolo paese sono ridottissime. Il fatto poi che nei documenti europei i principi di solidarietà e di giustizia sociale vengano riaffermati, indica comunque la presenza di una tradizione storica non ancora cancellata.

Dove indirizzare dunque l’azione politica? Oggi le forze della sinistra che vorrebbero un’inversione di tendenza appaiono divise tra chi chiede maggiore integrazione e chi invece ritiene che la strada sia quella del recupero pieno della sovranità nazionale. I piani sui quali si gioca il governo delle nostre società sono però talmente intrecciati che difficilmente può essere tracciata una netta distinzione di questa natura. È certo che l’insoddisfazione verso questa Europa ormai è così diffusa che la soluzione di problemi sociali urgenti non può essere rinviata al momento in cui sarà realizzata più democrazia in Europa. La strada pertanto non può essere questa. Il potere degli stati nazionali – che peraltro sono gli spazi dall’interno dei quali si sono potuti affermare democrazia e diritti sociali – va esercitato in un’ottica che sia di solidarietà tra i popoli, di difesa dei diritti dei più deboli e di utilizzo della sovranità statale affinché sui temi dove è necessaria un’azione europea le scelte siano in una direzione opposta a quella perseguita finora.

La disintegrazione, con il fallimento completo del progetto europeo, sarebbe disastrosa per tutti. Peraltro questo è il rischio che corre un’Europa irrigidita nei suoi dogmi di gestione dell’economia. In opposizione a chi difende un’integrazione basata sui mercati, sulla finanza e sull’assenza di democrazia, vanno recuperati quei principi sociali che hanno caratterizzato lo sviluppo civile del nostro continente. Il processo di integrazione come si è svolto finora si è mostrato fallimentare e produrrà altre crisi e ulteriore instabilità. La forza politica affinché l’Europa possa essere l’Europa dei popoli è tutta da costruire.