left n. 19, 13 maggio 2017
Narcisi di tutto il mondo unitevi
La rete ci regala un flusso continuo di informazioni. E al contempo ci imprigiona in un sistema di specchi. Facebook ci seduce mostrandoci i post degli amici ciò che già ci piace. Quella che doveva essere una piazza virtuale così diventa la sagra dell’autoreferenzialità
di Andrea Ventura
In un libro degli anni ottanta che merita ancora oggi la lettura, La società del rischio, il sociologo tedesco Ulrich Beck affermava che nelle società avanzate “la produzione sociale di ricchezza va sistematicamente di pari passo con la produzione sociale dei rischi”. Le questioni ambientali, le difficoltà nel calcolo della probabilità del verificarsi di eventi catastrofici, come anche la fiducia cieca nel fatto che la scienza sia sempre in grado di individuare la soluzione ai disastri e i problemi generati dallo sviluppo tecnologico e industriale, sono fattori che generano appunto un accumulo dei rischi e, a detta di Beck, mettono a repentaglio il benessere e la stabilità sociale.
Sebbene il testo di Beck faccia riferimento a un diverso genere di rischio, il rapidissimo sviluppo delle tecnologie dell’informazione può rientrare a tutti gli effetti in questo quadro. Rischi e opportunità, infatti, costituiscono due aspetti indubbiamente associati alla loro affermazione. Vi è anzitutto un aspetto legato alle loro potenzialità in termini di benessere diffuso. Molti servizi e informazioni che prima erano acquistati sul mercato, infatti, sono ormai accessibili gratuitamente per mezzo dei dispositivi che ciascuno di noi possiede. Questo ha enormemente ampliato le nostre possibilità di conoscere, comunicare e di scambiare saltando l’intermediazione commerciale. Questi effetti escono però dalla possibilità di essere misurati tramite i tradizionali indicatori statistici utilizzati per le merci e i servizi che hanno un prezzo o comunque un supporto fisico/materiale. Così, se in precedenza la crescita economica, come registrata appunto dalle statistiche, era associata all’aumento della quantità di beni e servizi a disposizione dei consumatori, oggi questo legame è reciso. A questo proposito si può ben parlare di “crisi” o di perdita di significato delle tradizionali misurazioni di produzione, produttività e benessere, costringendoci a guardare un po’ oltre l’idea che le nostre società, come è stato spesso ricordato anche su left, debbano essere schiave dell’idea che il Pil possa costituire un indicatore di qualche significato per il benessere delle persone.
Se questi sono indubbiamente elementi positivi, sull’altro versante abbiamo gli aspetti legati alle condizioni occupazionali e alla concentrazione del potere economico presso un pugno di grandi società che controllano i servizi e le strutture della rete. Ottimisti e pessimisti dunque si contendono il terreno fornendo previsioni assai divergenti sui futuri andamenti dell’economia. Così, mentre alcuni studi indicano che gran parte dei lavori tradizionali è destinata a sparire, con i connessi rischi di aumento della povertà e dell’emarginazione sociale, altri suggeriscono invece che, oggi come in passato, la sparizione di mansioni e settori produttivi sarà accompagnata alla nascita di nuove attività in grado di assorbire l’occupazione in eccesso.
L’affermarsi di queste nuove tecnologie però non ha solo conseguenze sull’andamento dell’economia: anche politica e il funzionamento della democrazia ne risultano profondamente influenzati. Indubbiamente, se gli equilibri politici tradizionali sembrano modificarsi e nuovi movimenti hanno insperati successi, questo è dovuto non solo alla crisi economica, che è lungi dall’essere superata, ma anche al fatto che il monopolio dei tradizionali mezzi di comunicazione di massa (radio, televisione e giornali) è indebolito dalla facilità con cui l’informazione circola liberamente in rete. Chiunque oggi può facilmente stabilire contatti a lunga distanza, esprimere opinioni e, come è stato raccontato nello scorso numero di left, organizzarsi, influenzare le scelte pubbliche, dibattere e raccontare fatti per mezzo della rete.
Eppure anche sotto questo profilo i rischi non sono pochi. La rete, infatti, non diffonde in modo neutrale notizie e informazioni. Il prezzo che paghiamo per avere gratuitamente i servizi della rete, o anche solo una casella di posta elettronica, è che le nostre attività vengano scandagliate e registrate per raccogliere informazioni su noi stessi. Ciascuno di noi, in sostanza, è “profilato” sulla base delle scelte, dei contatti, degli spostamenti, degli acquisti e delle opinioni che mostra di avere. Poi, in forza di complessi algoritmi, pubblicità e notizie sono regolati in modo tale che ogni utente riceva ciò che è più conforme alle preferenze che mostra di avere, frantumando lo spazio del dibattito. Questi algoritmi consentono peraltro di favorire, bloccare o ostacolare la circolazione di alcuni contenuti.Enormi sono dunque le conoscenze sulla società e sugli individui che la rete può raccogliere e elaborare. In un futuro non lontano il nostro iPhone potrebbe tra l’altro indicarci quali negozi, ristoranti, alberghi o attività culturali di nostro gradimento si trovino nei paraggi nel corso di un viaggio o di una semplice passeggiata. E se questo da un lato può migliorare l’organizzazione del nostro tempo individuale, lasciandoci ovviamente la libertà di non usufruirne, a dismisura crescono le possibilità di controllo della società. Si va verso un mondo, prevede Morozov (Silicon Valley. I signori del silicio), in cui ogni interazione sociale è registrata e valutata, e qualcuno, da qualche parte, finirà per darci un voto come passeggero, ospite, studente, paziente, cliente, lavoratore, cittadino. Inoltre, insieme ai rischi connessi al fatto che le nostre opinioni politiche siano raccolte e utilizzate da imprese private, la rete offre anche la possibilità di manipolare l’opinione pubblica in modo diverso, e forse più subdolo e pericoloso, di quello offerto dai tradizionali canali di informazione. Nessun politico di rilievo oggi comunica o affronta una campagna elettorale senza l’utilizzo dei cosiddetti big data. Solo per fare un esempio recente, secondo un’indagine di Claudio Gatti (L’arma di persuasione di massa del tycoon, il Sole 24 ore del 20/1/2017), i discorsi contraddittori e dissociati di Trump sarebbero stati volutamente tali, consentendo al suo staff di indirizzare verso ciascun gruppo di elettori i passaggi del discorso più conformi alle loro idee politiche.
Quelli che stiamo osservando sono probabilmente soltanto i prodromi di una trasformazione sociale che, nella sua portata, potrebbe essere analoga a quella generata della rivoluzione industriale e dalla formazione della società di massa. Marx all’inizio dell’ottocento osservava l’impoverimento della popolazione, espulsa dalle attività tradizionali (agricoltura e artigianato) e ridotta al lavoro salariato, prefigurando che la miseria crescente avrebbe condotto ad uno sbocco rivoluzionario. La storia ha preso invece un corso diverso: grazie a decenni di lotte per la dignità del lavoro, la difesa dei diritti e la democrazia, l’impoverimento crescente è stato arginato e quelle fabbriche – quei “mulini satanici” – hanno generato un benessere diffuso. L’azione collettiva e la formazione di potenti organizzazioni dei lavoratori sono stati gli strumenti che hanno consentito una distribuzione più equa dei vantaggi dell’industrializzazione.
Oggi, al di là del dibattito tra tecno-ottimisti e tecno-pessimisti, è necessario lavorare per il superamento di una visione della società basata sull’individualismo esasperato, e porre le basi per un’azione politica che riesca ad essere all’altezza delle ingenti trasformazioni che stiamo vivendo. Oltre alla necessità di una precisa consapevolezza, soprattutto tra i giovani, dei tranelli di queste tecnologie, la domanda sul genere di società nella quale vogliamo vivere è ineludibile. Solo una cultura politica che abbia al centro un’idea di benessere legata alla partecipazione, alla condivisione e alla socialità – e non al superamento della sofferenza fisica, tema che è stato invece al centro della precedente fase storica – può far sì che si colgano tutte le opportunità che questi sviluppi tecnologici offrono, e se ne contengano i rischi.
Sebbene il testo di Beck faccia riferimento a un diverso genere di rischio, il rapidissimo sviluppo delle tecnologie dell’informazione può rientrare a tutti gli effetti in questo quadro. Rischi e opportunità, infatti, costituiscono due aspetti indubbiamente associati alla loro affermazione. Vi è anzitutto un aspetto legato alle loro potenzialità in termini di benessere diffuso. Molti servizi e informazioni che prima erano acquistati sul mercato, infatti, sono ormai accessibili gratuitamente per mezzo dei dispositivi che ciascuno di noi possiede. Questo ha enormemente ampliato le nostre possibilità di conoscere, comunicare e di scambiare saltando l’intermediazione commerciale. Questi effetti escono però dalla possibilità di essere misurati tramite i tradizionali indicatori statistici utilizzati per le merci e i servizi che hanno un prezzo o comunque un supporto fisico/materiale. Così, se in precedenza la crescita economica, come registrata appunto dalle statistiche, era associata all’aumento della quantità di beni e servizi a disposizione dei consumatori, oggi questo legame è reciso. A questo proposito si può ben parlare di “crisi” o di perdita di significato delle tradizionali misurazioni di produzione, produttività e benessere, costringendoci a guardare un po’ oltre l’idea che le nostre società, come è stato spesso ricordato anche su left, debbano essere schiave dell’idea che il Pil possa costituire un indicatore di qualche significato per il benessere delle persone.
Se questi sono indubbiamente elementi positivi, sull’altro versante abbiamo gli aspetti legati alle condizioni occupazionali e alla concentrazione del potere economico presso un pugno di grandi società che controllano i servizi e le strutture della rete. Ottimisti e pessimisti dunque si contendono il terreno fornendo previsioni assai divergenti sui futuri andamenti dell’economia. Così, mentre alcuni studi indicano che gran parte dei lavori tradizionali è destinata a sparire, con i connessi rischi di aumento della povertà e dell’emarginazione sociale, altri suggeriscono invece che, oggi come in passato, la sparizione di mansioni e settori produttivi sarà accompagnata alla nascita di nuove attività in grado di assorbire l’occupazione in eccesso.
L’affermarsi di queste nuove tecnologie però non ha solo conseguenze sull’andamento dell’economia: anche politica e il funzionamento della democrazia ne risultano profondamente influenzati. Indubbiamente, se gli equilibri politici tradizionali sembrano modificarsi e nuovi movimenti hanno insperati successi, questo è dovuto non solo alla crisi economica, che è lungi dall’essere superata, ma anche al fatto che il monopolio dei tradizionali mezzi di comunicazione di massa (radio, televisione e giornali) è indebolito dalla facilità con cui l’informazione circola liberamente in rete. Chiunque oggi può facilmente stabilire contatti a lunga distanza, esprimere opinioni e, come è stato raccontato nello scorso numero di left, organizzarsi, influenzare le scelte pubbliche, dibattere e raccontare fatti per mezzo della rete.
Eppure anche sotto questo profilo i rischi non sono pochi. La rete, infatti, non diffonde in modo neutrale notizie e informazioni. Il prezzo che paghiamo per avere gratuitamente i servizi della rete, o anche solo una casella di posta elettronica, è che le nostre attività vengano scandagliate e registrate per raccogliere informazioni su noi stessi. Ciascuno di noi, in sostanza, è “profilato” sulla base delle scelte, dei contatti, degli spostamenti, degli acquisti e delle opinioni che mostra di avere. Poi, in forza di complessi algoritmi, pubblicità e notizie sono regolati in modo tale che ogni utente riceva ciò che è più conforme alle preferenze che mostra di avere, frantumando lo spazio del dibattito. Questi algoritmi consentono peraltro di favorire, bloccare o ostacolare la circolazione di alcuni contenuti.Enormi sono dunque le conoscenze sulla società e sugli individui che la rete può raccogliere e elaborare. In un futuro non lontano il nostro iPhone potrebbe tra l’altro indicarci quali negozi, ristoranti, alberghi o attività culturali di nostro gradimento si trovino nei paraggi nel corso di un viaggio o di una semplice passeggiata. E se questo da un lato può migliorare l’organizzazione del nostro tempo individuale, lasciandoci ovviamente la libertà di non usufruirne, a dismisura crescono le possibilità di controllo della società. Si va verso un mondo, prevede Morozov (Silicon Valley. I signori del silicio), in cui ogni interazione sociale è registrata e valutata, e qualcuno, da qualche parte, finirà per darci un voto come passeggero, ospite, studente, paziente, cliente, lavoratore, cittadino. Inoltre, insieme ai rischi connessi al fatto che le nostre opinioni politiche siano raccolte e utilizzate da imprese private, la rete offre anche la possibilità di manipolare l’opinione pubblica in modo diverso, e forse più subdolo e pericoloso, di quello offerto dai tradizionali canali di informazione. Nessun politico di rilievo oggi comunica o affronta una campagna elettorale senza l’utilizzo dei cosiddetti big data. Solo per fare un esempio recente, secondo un’indagine di Claudio Gatti (L’arma di persuasione di massa del tycoon, il Sole 24 ore del 20/1/2017), i discorsi contraddittori e dissociati di Trump sarebbero stati volutamente tali, consentendo al suo staff di indirizzare verso ciascun gruppo di elettori i passaggi del discorso più conformi alle loro idee politiche.
Quelli che stiamo osservando sono probabilmente soltanto i prodromi di una trasformazione sociale che, nella sua portata, potrebbe essere analoga a quella generata della rivoluzione industriale e dalla formazione della società di massa. Marx all’inizio dell’ottocento osservava l’impoverimento della popolazione, espulsa dalle attività tradizionali (agricoltura e artigianato) e ridotta al lavoro salariato, prefigurando che la miseria crescente avrebbe condotto ad uno sbocco rivoluzionario. La storia ha preso invece un corso diverso: grazie a decenni di lotte per la dignità del lavoro, la difesa dei diritti e la democrazia, l’impoverimento crescente è stato arginato e quelle fabbriche – quei “mulini satanici” – hanno generato un benessere diffuso. L’azione collettiva e la formazione di potenti organizzazioni dei lavoratori sono stati gli strumenti che hanno consentito una distribuzione più equa dei vantaggi dell’industrializzazione.
Oggi, al di là del dibattito tra tecno-ottimisti e tecno-pessimisti, è necessario lavorare per il superamento di una visione della società basata sull’individualismo esasperato, e porre le basi per un’azione politica che riesca ad essere all’altezza delle ingenti trasformazioni che stiamo vivendo. Oltre alla necessità di una precisa consapevolezza, soprattutto tra i giovani, dei tranelli di queste tecnologie, la domanda sul genere di società nella quale vogliamo vivere è ineludibile. Solo una cultura politica che abbia al centro un’idea di benessere legata alla partecipazione, alla condivisione e alla socialità – e non al superamento della sofferenza fisica, tema che è stato invece al centro della precedente fase storica – può far sì che si colgano tutte le opportunità che questi sviluppi tecnologici offrono, e se ne contengano i rischi.